LAS AFUERAS/Edición de madrugada
Y NOS FALTABA EL CABALLO (DESBOCADO)
Una señora fue hospitalizada al ser arrollada por un caballo desbocado que se asustó por el sonido del claxon de un camión. La Arrollada resultó con golpes en diferentes partes del cuerpo tras ser atropellada por el equino, cuyo Dueño fue detenido por la policía para que responda a los daños provocados por su caballo, aunque argumentó que no tenía la menor intención de causarle daño a la señora.
Los hechos ocurrieron en estas Afueras, a las 20.30 horas del martes, cuando la Víctima se encontraba en la parada del transporte público y repentinamente fue impactada por el corcel que pasó a todo galope, con la silla de montar, pero sin jinete, según la declaró ante el ministerio público que el tomó su declaración en el nosocomio donde es atendida. De acuerdo con el reporte médico, la Agraviada, de 30 años de edad, sufrió diversos golpes contusos en el cuerpo y cráneo, así como raspaduras en brazos y codos.
El Propietario del caballo relató que cuando regresaba de encerrar un hato de ganado se bajó momentáneamente del animal para realizar una necesidad fisiológica, entonces pasó un camión, cuyo chofer hizo sonar fuertemente el claxon, lo que provocó la estampida del cuaco. Al lugar llegó la Policía Municipal y una ambulancia para auxiliar y trasladar a la Señora Herida al hospital para su atención. En tanto, el caballo fue detenido por un grupo de vaqueros, que se dieron a la tarea de perseguirlo, atraparlo y llevarlo al corral, donde se encuentra asegurado para cualquier aclaración y arreglo con la parte agraviada.
--crg
Wednesday, May 28, 2008
LAS AFUERAS/Edición Vespertina
LA RESPUESTA DE AGRIPINA
Una plaza sola, sin una sola yerba para detener el aire. Allí nos quedamos.
Entonces le pregunté a mi mujer:
⎯¿En qué país estamos, Agripina?
Y ella se alzó de hombros.
Juan Rulfo, Luvina, El Llano en llamas
[recordado por La Detective mientras come cantidades industriales de sandía y, luego entonces, ríe]
--crg
LA RESPUESTA DE AGRIPINA
Una plaza sola, sin una sola yerba para detener el aire. Allí nos quedamos.
Entonces le pregunté a mi mujer:
⎯¿En qué país estamos, Agripina?
Y ella se alzó de hombros.
Juan Rulfo, Luvina, El Llano en llamas
[recordado por La Detective mientras come cantidades industriales de sandía y, luego entonces, ríe]
--crg
LO DICE IL MANIFESTO NO YO
Il manifesto del 18 Maggio 2008
Dal Messico scatti di interni nei luoghi tenebrosi del controllo
Sullo sfondo dell'immenso manicomio della Castañeda, voluto dal dittatore Porfirio Diaz, tragiche vicende individuali si intrecciano alla tormentata storia del paese nell'intenso romanzo di Cristina Rivera Garza «Nessuno mi vedrà piangere»
Francesca Lazzarato
«A volte si ha la convinzione, giustissima per alcuni, che noi lettori ci avviciniamo ai libri solo per passare il tempo o divertirci, ma io mi avvicino ai libri con il desiderio di pensare insieme ad altri. I libri che mi hanno commosso, che hanno segnato la mia vita, sono quelli che mi fanno pensare, nel senso più ampio del termine (...), pensare nel senso di perdersi; pensare nel senso di camminare per una stanza fino a trovare la finestra o a creare una porta». Così la messicana Cristina Rivera Garza, una delle più interessanti scrittrici latinoamericane degli ultimi anni, parla in un'intervista del suo rapporto con la lettura, che ci aiuta a «costruire un universo insieme a qualcun altro». Ma, tra cattedrali del mare e topi divoratori di carta stampata, esistono ancora libri che fanno pensare, libri capaci di lasciare tracce profonde e di cambiarci la vita?
Tassonomia della devianza
Certo che esistono, anche se bisogna cercarseli con pazienza, dribblando le classifiche, evitando le muraglie di best seller erette all'ingresso delle librerie, ignorando la compagnia di giro che frequenta i talk show. E in questo modo, magari , si finisce per incappare in un romanzo come Nessuno mi vedrà piangere (Voland, pp. 243, euro 14), che proprio Cristina Rivera Garza ha pubblicato nel 1999 e che ora esce in italiano, ottimamente tradotto da Raul Schenardi, per accompagnarci in un viaggio straordinario attraverso la vita, i pensieri e i dolori di due personaggi difficili da dimenticare, il fotografo morfinomane Joaquín Bitrago e la ex prostituta Matilda Burgos, destinati a incontrarsi in due luoghi diversamente consacrati all'esclusione, ossia il manicomio e il bordello.
Scrittrice raffinatissima e intensa che prima di affrontare il romanzo si è dedicata al racconto e alla poesia, la Rivera Garza è nata nel 1964 e, laureata in storia, ha insegnato in diverse università, sia in Messico che negli Stati Uniti. La sua formazione di storica e soprattutto il grande lavoro di ricerca che ha compiuto negli archivi dell'antico e immenso Manicomio General de la Castañeda (voluto dal dittatore Porfirio Diaz, che lo fece costruire a tempo di record da un suo figlio ingegnere) hanno contribuito in modo determinante alle costruzione di un romanzo vasto, tenebroso e labirintico come il complesso di edifici in cui a partire dal 1910 venniro accolti «malati mentali di ogni età e sesso». Le vicende di Joaquín e di Matilda si intrecciano infatti con quelle del loro paese, il Messico, che tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX si preparava a entrare nella modernità attraverso la lenta sostituzione del neofeudalesimo da parte della borghesia. Un processo che fece esplodere enormi contraddizioni e finì per consegnare l'esercizio del potere a una nuova classe di privilegiati, non senza scatenare rivolte sanguinose e imporre nuove forme di esclusione che passavano anche attraverso il controllo e la neutralizzazione di corpi e menti ribelli, imprigionati e catalogati secondo una tassonomia della devianza capace di accomunare anarchici e puttane, bambini di strada e vecchi abbandonati dalla famiglia, alcolizzati e drogati.
È alla Castañeda che Joaquín, figlio diseredato di una ricca famiglia borghese, fotografa i pazienti perché le loro immagini possano lombrosianamente illustrare i fascicoli in cui vengono descritti sindromi e cure, crisi e progressi. Ed è là che rivede Matilda, della quale ha fotografato molti anni prima la conturbante nudità, esibita nel più elegante bordello della capitale. A partire da quel momento e dalla domanda ironica della donna («Come si diventa fotografi di matti?») cui corrisponde quella crudele di Joaquín («Come si diventa matti?») le loro storie cominceranno a sfiorarsi attraverso una lunga serie di flash back. Alle illusioni e passioni di Joaquín, il cui sguardo è costantemente filtrato dall'obiettivo e nelle cui vene scorre più morfina che sangue, si affianca il racconto dell'infanzia miserabile di Matilda impregnata dall'odore dei baccelli di vaniglia, il suo amore per un'anarchica militante di nome Diamantina che è stata anche la prima amante del giovane fotografo, e infine il suo passaggio da un bordello a un altro, fino all'approdo nel luogo dove la definiranno una «malata docile, che parla molto».
Così, accostando pazientemente «piccoli, particolari momenti, eventi visibili e oggetti immersi nell'evento totale della storia», Cristina Rivera Garza riesce a raccontarci storie individuali che finiscono per comporne una assai più vasta e universale. Perché solo del Messico ci parla questo romanzo che usa una lingua perfetta e musicale organizzata intorno a immagini bagnate di luce, nitide e rivelatrici come quelle che Joaquín sa restituire attraverso la macchina fotografica.
L'espulsione dei «disturbanti»
Al di là della Storia e delle storie, Nessuno mi vedrà piangere ci parla infatti dell'intollerabile scandalo rappresentato dalla differenza, da qualsiasi tipo di differenza, in seno a una società che fa del controllo e dell'omologazione la sua prima legge, che non ammette diversità di pensiero e di linguaggio (il cozzare costante tra le parole della medicina e quelle della follia, perpetuamente sopraffatte, è superbamente descritto), che separa ed espelle i corpi «disturbanti» dei poveri, dei matti, delle donne, dei vagabondi e, non potendoli cancellare in altro modo, li dichiara malati, pericolosi, perversi.
Mescolando documenti e finzione, convertendo la ricerca d'archivio in racconto, attraversando territori difficili quanto misteriosi, permettendoci a ogni passo di «pensare» ed esibendo una eccezionale capacità fabulatoria, Cristina Rivera Garza ha scritto uno dei più bei romanzi latinoamericani degli ultimi dieci anni. E la sua bravura è oggi confermata da La muerte me da, il suo quarto romanzo appena pubblicato da Tusquets e strutturato come un thriller che lascia senza fiato e nel quale, si è detto «neppure chi legge è innocente».
In esso la società contemporanea si misura con la violenza spaventosa della cronaca, destinata a reiterare il delitto ogni volta che torna a raccontarlo e a violare ancora e ancora corpi già mille volte violati, in questo caso quelli di giovani uomini castrati e uccisi, accanto ai quali l'assassino lascia un biglietto con i versi di una poetessa argentina suicida, Alejandra Pizarnik. E anche questa mirabile esplorazione della follia e della morte, del corpo offeso, del linguaggio che lo definisce e dello sguardo che si posa su di esso per negarlo è destinata senza il minimo dubbio a stregare il lettore in modo irreparabile.
--crg
Il manifesto del 18 Maggio 2008
Dal Messico scatti di interni nei luoghi tenebrosi del controllo
Sullo sfondo dell'immenso manicomio della Castañeda, voluto dal dittatore Porfirio Diaz, tragiche vicende individuali si intrecciano alla tormentata storia del paese nell'intenso romanzo di Cristina Rivera Garza «Nessuno mi vedrà piangere»
Francesca Lazzarato
«A volte si ha la convinzione, giustissima per alcuni, che noi lettori ci avviciniamo ai libri solo per passare il tempo o divertirci, ma io mi avvicino ai libri con il desiderio di pensare insieme ad altri. I libri che mi hanno commosso, che hanno segnato la mia vita, sono quelli che mi fanno pensare, nel senso più ampio del termine (...), pensare nel senso di perdersi; pensare nel senso di camminare per una stanza fino a trovare la finestra o a creare una porta». Così la messicana Cristina Rivera Garza, una delle più interessanti scrittrici latinoamericane degli ultimi anni, parla in un'intervista del suo rapporto con la lettura, che ci aiuta a «costruire un universo insieme a qualcun altro». Ma, tra cattedrali del mare e topi divoratori di carta stampata, esistono ancora libri che fanno pensare, libri capaci di lasciare tracce profonde e di cambiarci la vita?
Tassonomia della devianza
Certo che esistono, anche se bisogna cercarseli con pazienza, dribblando le classifiche, evitando le muraglie di best seller erette all'ingresso delle librerie, ignorando la compagnia di giro che frequenta i talk show. E in questo modo, magari , si finisce per incappare in un romanzo come Nessuno mi vedrà piangere (Voland, pp. 243, euro 14), che proprio Cristina Rivera Garza ha pubblicato nel 1999 e che ora esce in italiano, ottimamente tradotto da Raul Schenardi, per accompagnarci in un viaggio straordinario attraverso la vita, i pensieri e i dolori di due personaggi difficili da dimenticare, il fotografo morfinomane Joaquín Bitrago e la ex prostituta Matilda Burgos, destinati a incontrarsi in due luoghi diversamente consacrati all'esclusione, ossia il manicomio e il bordello.
Scrittrice raffinatissima e intensa che prima di affrontare il romanzo si è dedicata al racconto e alla poesia, la Rivera Garza è nata nel 1964 e, laureata in storia, ha insegnato in diverse università, sia in Messico che negli Stati Uniti. La sua formazione di storica e soprattutto il grande lavoro di ricerca che ha compiuto negli archivi dell'antico e immenso Manicomio General de la Castañeda (voluto dal dittatore Porfirio Diaz, che lo fece costruire a tempo di record da un suo figlio ingegnere) hanno contribuito in modo determinante alle costruzione di un romanzo vasto, tenebroso e labirintico come il complesso di edifici in cui a partire dal 1910 venniro accolti «malati mentali di ogni età e sesso». Le vicende di Joaquín e di Matilda si intrecciano infatti con quelle del loro paese, il Messico, che tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX si preparava a entrare nella modernità attraverso la lenta sostituzione del neofeudalesimo da parte della borghesia. Un processo che fece esplodere enormi contraddizioni e finì per consegnare l'esercizio del potere a una nuova classe di privilegiati, non senza scatenare rivolte sanguinose e imporre nuove forme di esclusione che passavano anche attraverso il controllo e la neutralizzazione di corpi e menti ribelli, imprigionati e catalogati secondo una tassonomia della devianza capace di accomunare anarchici e puttane, bambini di strada e vecchi abbandonati dalla famiglia, alcolizzati e drogati.
È alla Castañeda che Joaquín, figlio diseredato di una ricca famiglia borghese, fotografa i pazienti perché le loro immagini possano lombrosianamente illustrare i fascicoli in cui vengono descritti sindromi e cure, crisi e progressi. Ed è là che rivede Matilda, della quale ha fotografato molti anni prima la conturbante nudità, esibita nel più elegante bordello della capitale. A partire da quel momento e dalla domanda ironica della donna («Come si diventa fotografi di matti?») cui corrisponde quella crudele di Joaquín («Come si diventa matti?») le loro storie cominceranno a sfiorarsi attraverso una lunga serie di flash back. Alle illusioni e passioni di Joaquín, il cui sguardo è costantemente filtrato dall'obiettivo e nelle cui vene scorre più morfina che sangue, si affianca il racconto dell'infanzia miserabile di Matilda impregnata dall'odore dei baccelli di vaniglia, il suo amore per un'anarchica militante di nome Diamantina che è stata anche la prima amante del giovane fotografo, e infine il suo passaggio da un bordello a un altro, fino all'approdo nel luogo dove la definiranno una «malata docile, che parla molto».
Così, accostando pazientemente «piccoli, particolari momenti, eventi visibili e oggetti immersi nell'evento totale della storia», Cristina Rivera Garza riesce a raccontarci storie individuali che finiscono per comporne una assai più vasta e universale. Perché solo del Messico ci parla questo romanzo che usa una lingua perfetta e musicale organizzata intorno a immagini bagnate di luce, nitide e rivelatrici come quelle che Joaquín sa restituire attraverso la macchina fotografica.
L'espulsione dei «disturbanti»
Al di là della Storia e delle storie, Nessuno mi vedrà piangere ci parla infatti dell'intollerabile scandalo rappresentato dalla differenza, da qualsiasi tipo di differenza, in seno a una società che fa del controllo e dell'omologazione la sua prima legge, che non ammette diversità di pensiero e di linguaggio (il cozzare costante tra le parole della medicina e quelle della follia, perpetuamente sopraffatte, è superbamente descritto), che separa ed espelle i corpi «disturbanti» dei poveri, dei matti, delle donne, dei vagabondi e, non potendoli cancellare in altro modo, li dichiara malati, pericolosi, perversi.
Mescolando documenti e finzione, convertendo la ricerca d'archivio in racconto, attraversando territori difficili quanto misteriosi, permettendoci a ogni passo di «pensare» ed esibendo una eccezionale capacità fabulatoria, Cristina Rivera Garza ha scritto uno dei più bei romanzi latinoamericani degli ultimi dieci anni. E la sua bravura è oggi confermata da La muerte me da, il suo quarto romanzo appena pubblicato da Tusquets e strutturato come un thriller che lascia senza fiato e nel quale, si è detto «neppure chi legge è innocente».
In esso la società contemporanea si misura con la violenza spaventosa della cronaca, destinata a reiterare il delitto ogni volta che torna a raccontarlo e a violare ancora e ancora corpi già mille volte violati, in questo caso quelli di giovani uomini castrati e uccisi, accanto ai quali l'assassino lascia un biglietto con i versi di una poetessa argentina suicida, Alejandra Pizarnik. E anche questa mirabile esplorazione della follia e della morte, del corpo offeso, del linguaggio che lo definisce e dello sguardo che si posa su di esso per negarlo è destinata senza il minimo dubbio a stregare il lettore in modo irreparabile.
--crg
Tuesday, May 27, 2008
LA FURIA DE LOS ELEFANTES
[en La Mano Oblicua, columna de los martes del periódico mexicano Milenio, sección de cultura]
En una de las escenas utilizadas hace algunos años para la promoción de Doce monos, la película que Terry Gilliam dirigió en 1995 —inspirada a su vez en La Jetée, una cinta de ciencia ficción que el director Chris Maker había realizado en 1962— aparecía un desfile de animales salvajes recorriendo a su antojo las calles abandonadas y los edificios monumentales, aunque ya vacíos, de Nueva York. Turbadora, teñida por una extraña melancolía atemporal, la escena tomaba lugar en un futuro no muy lejano en el que, debido a los efectos letales de un virus, los seres humanos se veían forzados a vivir en subterráneas colonias penales mientras que los animales, inexplicablemente inmunes, reinaban de nueva cuenta sobre la faz de la Tierra. Con mucho menos recursos tanto estéticos como argumentativos, I am legend (Francis Lawrence, 2007) presenta una situación similar: los animales, especialmente la fiel mascota doméstica aunque también los salvajes que no conocen la sumisión, escapan al futuro apocalíptico de una humanidad que ha caído presa de un virus letal. Así, en las ruinosas calles de Nueva York (¿pues dónde más?), siguen rondando los veloces venados y las feroces fauces de los felinos.
La pregunta en esos casos, como en otras cintas y/o anécdotas es, por supuesto: ¿Y qué es lo que provoca que los animales sean inmunes a los virus manufacturados por los científicos? Parte de la respuesta se encuentra en la pregunta misma: los virus en todos estos relatos son, en efecto, manufacturados por la humanidad misma, de ahí que sus efectos, esto es de presumir, sean limitados a la especie que los ha creado. La otra parte de la respuesta está, creo yo, en ese miedo irrestricto, ese miedo que a menudo se confunde con la admiración, que une a los representantes de la especie humana con el gran reino animal. Se trata del mismo miedo que se cuela, por ejemplo, en nuestra arraigada creencia de que, en caso de una guerra atómica y/o alguna otra catástrofe de proporciones universales, los sobrevivientes finales serían las cucarachas. Es miedo, en efecto, pero también envidia. Es miedo, no me cabe duda al respecto, pero mezclado con algo de culpa. Es el tipo de miedo que demuestra que nuestra relación con los animales, digámoslo de una vez por todas, ha sido histórica y simbólicamente peculiar (por no decir que ambivalente o, de plano, injusta).
Pocas cosas como la visita a un circo o a un parque de diversiones que ofrece un show de animales ponen de manifiesto el gusto humano por los rituales del dominio de su propia especie. Un regodeo autolegitimizador, una especie glotona autocomplacencia, ronda a esos espectáculos en los que un representante de la especie humana (usualmente conocido como amaestrador) logra subsumir a tal punto la voluntad de un animal como para lograr que, a cambio de comida (o peor: del aplauso), realice una serie de piruetas no sólo aburridas sino también patéticas. Los suspiros de asombro o delirio que provocan las contorsiones de los delfines o el salto de los leones a través de los míticos aros de fuego van en realidad dirigidos a las proezas del que amaestra y no, como se cree, a las habilidades (si es que lo son) adquiridas por el amaestrado. Y si eso no es una expresión de miedo ante el potencial peligro de los animales, ¿qué es entonces? No por casualidad autores de la más variada estirpe, del Federico Fellini de La Strada (1954) al mundo de Santa María del Circo, del novelista mexicano David Toscana, han examinado los avatares del circo en tanto metáfora cruel de las relaciones de poder que caracterizan a las interacciones humanas más diversas.
En una noticia más cercana al mundo de Kafka —cuyos relatos involucrando animales, de escarabajos a ratas cantarinas, son más que memorables— que al de Esopo, hace no mucho se anunciaba que un grupo de orgullosos científicos de Kerala, un estado en el suroeste de la India, planeaban deshacerse de la molesta presencia de elefantes, caracterizados con anterioridad como furiosos o violentos o mal comportados, de las festividades públicas a las cuales no sólo eran convocados sino para las cuales eran y siguen siendo necesarios. La solución involucraba la utilización de un chip incrustado en el cuello del paquidermo para así detectar sus fases de celo y la calidad de los tratos recibidos los que, de acuerdo a Los Científicos, constituían la causa de los episodios de violencia ocurridos en creciente número en las actuaciones públicas de esos animales. Un desfile sagrado sin elefante, se sabe, no es un desfile sagrado.
No se necesita mucho, por supuesto, para entender el vía crucis, y luego entonces, la rabia de los elefantes. Sujetos a malos tratos (cuya naturaleza no se describe ni mucho menos se analiza en la nota de periódico) y sin recibir respeto alguno por el ciclo privado de sus calendarios reproductivos, es de suyo entendible, si no es que encomiable, que los paquidermos de Kerala hayan decidido sumarse al Gran No de Emily Dickinson. Que tal decisión sólo reciba el epíteto de “violenta” o “irrespetuosa” o “inexplicable” por parte de los amaestradores en turno, sólo demuestra la más elemental falta de empatía que caracteriza a una especie tan dada a la autocomplacencia y el autoagrandamiento y la preocupación por los negocios del espectáculo. Así, junto al tiburón que devora surfeadores distraídos en las costas de Florida, o el burro que muerde gente en las montañas del sureste mexicano, o el toro que destruye casas de sus dueños y de los vecinos de sus dueños, los elefantes de Kerala podrían bien sumarse a esos ejércitos fantasmagóricos de sobrevivientes últimos que, después del virus o de la guerra atómica o del conflicto final, reinarán una vez más sobre la faz de la Tierra. Tal vez a la Tierra no le vaya tan mal esta vez con sus nuevos amos.
--crg
[en La Mano Oblicua, columna de los martes del periódico mexicano Milenio, sección de cultura]
En una de las escenas utilizadas hace algunos años para la promoción de Doce monos, la película que Terry Gilliam dirigió en 1995 —inspirada a su vez en La Jetée, una cinta de ciencia ficción que el director Chris Maker había realizado en 1962— aparecía un desfile de animales salvajes recorriendo a su antojo las calles abandonadas y los edificios monumentales, aunque ya vacíos, de Nueva York. Turbadora, teñida por una extraña melancolía atemporal, la escena tomaba lugar en un futuro no muy lejano en el que, debido a los efectos letales de un virus, los seres humanos se veían forzados a vivir en subterráneas colonias penales mientras que los animales, inexplicablemente inmunes, reinaban de nueva cuenta sobre la faz de la Tierra. Con mucho menos recursos tanto estéticos como argumentativos, I am legend (Francis Lawrence, 2007) presenta una situación similar: los animales, especialmente la fiel mascota doméstica aunque también los salvajes que no conocen la sumisión, escapan al futuro apocalíptico de una humanidad que ha caído presa de un virus letal. Así, en las ruinosas calles de Nueva York (¿pues dónde más?), siguen rondando los veloces venados y las feroces fauces de los felinos.
La pregunta en esos casos, como en otras cintas y/o anécdotas es, por supuesto: ¿Y qué es lo que provoca que los animales sean inmunes a los virus manufacturados por los científicos? Parte de la respuesta se encuentra en la pregunta misma: los virus en todos estos relatos son, en efecto, manufacturados por la humanidad misma, de ahí que sus efectos, esto es de presumir, sean limitados a la especie que los ha creado. La otra parte de la respuesta está, creo yo, en ese miedo irrestricto, ese miedo que a menudo se confunde con la admiración, que une a los representantes de la especie humana con el gran reino animal. Se trata del mismo miedo que se cuela, por ejemplo, en nuestra arraigada creencia de que, en caso de una guerra atómica y/o alguna otra catástrofe de proporciones universales, los sobrevivientes finales serían las cucarachas. Es miedo, en efecto, pero también envidia. Es miedo, no me cabe duda al respecto, pero mezclado con algo de culpa. Es el tipo de miedo que demuestra que nuestra relación con los animales, digámoslo de una vez por todas, ha sido histórica y simbólicamente peculiar (por no decir que ambivalente o, de plano, injusta).
Pocas cosas como la visita a un circo o a un parque de diversiones que ofrece un show de animales ponen de manifiesto el gusto humano por los rituales del dominio de su propia especie. Un regodeo autolegitimizador, una especie glotona autocomplacencia, ronda a esos espectáculos en los que un representante de la especie humana (usualmente conocido como amaestrador) logra subsumir a tal punto la voluntad de un animal como para lograr que, a cambio de comida (o peor: del aplauso), realice una serie de piruetas no sólo aburridas sino también patéticas. Los suspiros de asombro o delirio que provocan las contorsiones de los delfines o el salto de los leones a través de los míticos aros de fuego van en realidad dirigidos a las proezas del que amaestra y no, como se cree, a las habilidades (si es que lo son) adquiridas por el amaestrado. Y si eso no es una expresión de miedo ante el potencial peligro de los animales, ¿qué es entonces? No por casualidad autores de la más variada estirpe, del Federico Fellini de La Strada (1954) al mundo de Santa María del Circo, del novelista mexicano David Toscana, han examinado los avatares del circo en tanto metáfora cruel de las relaciones de poder que caracterizan a las interacciones humanas más diversas.
En una noticia más cercana al mundo de Kafka —cuyos relatos involucrando animales, de escarabajos a ratas cantarinas, son más que memorables— que al de Esopo, hace no mucho se anunciaba que un grupo de orgullosos científicos de Kerala, un estado en el suroeste de la India, planeaban deshacerse de la molesta presencia de elefantes, caracterizados con anterioridad como furiosos o violentos o mal comportados, de las festividades públicas a las cuales no sólo eran convocados sino para las cuales eran y siguen siendo necesarios. La solución involucraba la utilización de un chip incrustado en el cuello del paquidermo para así detectar sus fases de celo y la calidad de los tratos recibidos los que, de acuerdo a Los Científicos, constituían la causa de los episodios de violencia ocurridos en creciente número en las actuaciones públicas de esos animales. Un desfile sagrado sin elefante, se sabe, no es un desfile sagrado.
No se necesita mucho, por supuesto, para entender el vía crucis, y luego entonces, la rabia de los elefantes. Sujetos a malos tratos (cuya naturaleza no se describe ni mucho menos se analiza en la nota de periódico) y sin recibir respeto alguno por el ciclo privado de sus calendarios reproductivos, es de suyo entendible, si no es que encomiable, que los paquidermos de Kerala hayan decidido sumarse al Gran No de Emily Dickinson. Que tal decisión sólo reciba el epíteto de “violenta” o “irrespetuosa” o “inexplicable” por parte de los amaestradores en turno, sólo demuestra la más elemental falta de empatía que caracteriza a una especie tan dada a la autocomplacencia y el autoagrandamiento y la preocupación por los negocios del espectáculo. Así, junto al tiburón que devora surfeadores distraídos en las costas de Florida, o el burro que muerde gente en las montañas del sureste mexicano, o el toro que destruye casas de sus dueños y de los vecinos de sus dueños, los elefantes de Kerala podrían bien sumarse a esos ejércitos fantasmagóricos de sobrevivientes últimos que, después del virus o de la guerra atómica o del conflicto final, reinarán una vez más sobre la faz de la Tierra. Tal vez a la Tierra no le vaya tan mal esta vez con sus nuevos amos.
--crg
Saturday, May 24, 2008
LOS ANIMALES DESOBEDIENTES
Algo sucede. Un burro es condenado a meses de prisión por morder a los vecinos. Un tiburón devora a un surfeador distraído. Un toro destruye la casa donde viven los que lo alimentan. La policía le extiende una multa a un perro que ladra, y muerde, lo suficiente como para merecer una multa. Uno le da la vuelta a las hojas virtuales de los diarios y, café en mano, uno se dice: algo sucede, con ese tonecito de ironía resguardada que da a veces la intranquilidad y la falta de sosiego. ¿Se trata ya de una rebelión organizada a nivel mundial? ¿Son estos apenas los indicios de lo que no tardará en convertirse en el Estado Normal de las Cosas? ¿Finalmente han decidido, todos en conjunto, aunarse al No de Emily Dickinson? Porque si se tiene en cuenta el proceso de vigilancia al que son sometidos los elefantes, previamente calificados (¿estigmatizados?) como violentos o furiosos o desobedientes, en la India, uno empieza a entender algunas cosas:
"Autoridades de India están colocando chips a todos los elefantes domésticos del estado de Kerala para evitar episodios de furia de esos animales durante los festivales o desfiles en los que es común que participen. El chip, que se implanta a los paquidermos en el lado izquierdo de su cuello, contiene un código de seguridad de 10 dígitos que permite conocer datos del animal como edad, ciclos reproductivos, detalles de su salud y nombre de su propietario. De esta manera, según un reportaje publicado por el diario The Times of India, las autoridades buscan que en los actos públicos participen sólo elefantes que reunan los requisitos necesarios y cuyos datos garanticen que no protagonizarán escenas violentas. El programa para implantar chips se encuentra en su fase final tras iniciar a finales de 2006 y hasta ahora aproximadamente 800 elefantes ya cuentan con el dispositivo.
Las autoridades de Kerala, estado del suroeste de India, decidieron aplicar esta peculiar medida luego que el índice de incidentes violentos de elefantes durante actos públicos se disparó en los últimos años e incluso cobró algunas vidas. Expertos en elefantes determinaron que los principales factores que desatan la furia en esos animales son sus ciclos reproductivos y los malos tratos por parte de sus propietarios. Mediante la implantación del chip se podrá saber si los machos están en temporada de celo o si han sido maltratados por sus dueños, para que en caso de que así sea se les impida ser inscritos en festivales, desfiles o rituales tradicionales.
"Ya no podrá haber elefantes sin chip en las calles", advirtió El Experto."
Y eso que poco sabemos del mundo de las pulgas, los escarabajos y las moscas. Algo sucede, sin duda.
--crg
Algo sucede. Un burro es condenado a meses de prisión por morder a los vecinos. Un tiburón devora a un surfeador distraído. Un toro destruye la casa donde viven los que lo alimentan. La policía le extiende una multa a un perro que ladra, y muerde, lo suficiente como para merecer una multa. Uno le da la vuelta a las hojas virtuales de los diarios y, café en mano, uno se dice: algo sucede, con ese tonecito de ironía resguardada que da a veces la intranquilidad y la falta de sosiego. ¿Se trata ya de una rebelión organizada a nivel mundial? ¿Son estos apenas los indicios de lo que no tardará en convertirse en el Estado Normal de las Cosas? ¿Finalmente han decidido, todos en conjunto, aunarse al No de Emily Dickinson? Porque si se tiene en cuenta el proceso de vigilancia al que son sometidos los elefantes, previamente calificados (¿estigmatizados?) como violentos o furiosos o desobedientes, en la India, uno empieza a entender algunas cosas:
"Autoridades de India están colocando chips a todos los elefantes domésticos del estado de Kerala para evitar episodios de furia de esos animales durante los festivales o desfiles en los que es común que participen. El chip, que se implanta a los paquidermos en el lado izquierdo de su cuello, contiene un código de seguridad de 10 dígitos que permite conocer datos del animal como edad, ciclos reproductivos, detalles de su salud y nombre de su propietario. De esta manera, según un reportaje publicado por el diario The Times of India, las autoridades buscan que en los actos públicos participen sólo elefantes que reunan los requisitos necesarios y cuyos datos garanticen que no protagonizarán escenas violentas. El programa para implantar chips se encuentra en su fase final tras iniciar a finales de 2006 y hasta ahora aproximadamente 800 elefantes ya cuentan con el dispositivo.
Las autoridades de Kerala, estado del suroeste de India, decidieron aplicar esta peculiar medida luego que el índice de incidentes violentos de elefantes durante actos públicos se disparó en los últimos años e incluso cobró algunas vidas. Expertos en elefantes determinaron que los principales factores que desatan la furia en esos animales son sus ciclos reproductivos y los malos tratos por parte de sus propietarios. Mediante la implantación del chip se podrá saber si los machos están en temporada de celo o si han sido maltratados por sus dueños, para que en caso de que así sea se les impida ser inscritos en festivales, desfiles o rituales tradicionales.
"Ya no podrá haber elefantes sin chip en las calles", advirtió El Experto."
Y eso que poco sabemos del mundo de las pulgas, los escarabajos y las moscas. Algo sucede, sin duda.
--crg
Wednesday, May 21, 2008
ORACIÓN
¿Qué nuevo ritmo descubriré hoy? ¿Qué palabra que ya creía irrecuperable me devolverá la infancia? Al sumergirme, ¿qué nuevos paisajes submarinos descubriré? ¿Qué hoja sin igual descubriré entre la yerba? ¿Qué tesitura, qué brisa, qué suave aire me ofrecerá la tarde? ¿Qué canción remota escucharé y me hará recordar otra canción remota y me conminará a cantar otra canción remota? ¿Qué pequeña piedra reclamará mi atención y guardaré en mi bolsillo? ¿Qué voz alegre retumbará a mis espaldas y me devolverá la alegría?
Reinaldo Arenas, El color del verano, 97.
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¿Qué nuevo ritmo descubriré hoy? ¿Qué palabra que ya creía irrecuperable me devolverá la infancia? Al sumergirme, ¿qué nuevos paisajes submarinos descubriré? ¿Qué hoja sin igual descubriré entre la yerba? ¿Qué tesitura, qué brisa, qué suave aire me ofrecerá la tarde? ¿Qué canción remota escucharé y me hará recordar otra canción remota y me conminará a cantar otra canción remota? ¿Qué pequeña piedra reclamará mi atención y guardaré en mi bolsillo? ¿Qué voz alegre retumbará a mis espaldas y me devolverá la alegría?
Reinaldo Arenas, El color del verano, 97.
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Tuesday, May 20, 2008
LA MANO OBLICUA SE DESNUDA
La Inquietante (e Internacional) Semana de las Mujeres Desnudas
DESNUDA TRES: EL ANILLO, QUE VISTE
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La Inquietante (e Internacional) Semana de las Mujeres Desnudas
DESNUDA TRES: EL ANILLO, QUE VISTE
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ÁRBOL DE MUCHOS PÁJAROS
[en La Mano Oblicua, columna de los martes del periódico mexicano Milenio, sección de cultura]
Escribió Rosario Castellanos en su poema Revelación: Lo supe de repente: hay otro. /Y desde entonces duermo sólo a medias /y ya casi no como.// No es posible vivir /con este rostro /que es el mío verdadero /y que aún no conozco.
Tengo la sospecha de que este es el momento que inaugura una y otra vez todo proceso de escritura: el momento de reconocimiento atroz: un momento alterado y de alteración: asombro y terror confundidos: crítica y libertad. Un abismo. Identificatoria (en el sentido de producir el reclamo de la diferencia que es asignada por ese otro) más que identataria (el grito de la mismidad), la escritura, cuando verdaderamente lo es, encarna la otra cara de la cara. El otro cuerpo. La otra voz. Se trata de la voz nuestra, eso es seguro, pero de la nuestra como “aún no la conocemos”. Atormenta y, debido a eso, dormimos “solo a medias” o “no com[emos]”. Pero se trata, sin duda, del rostro más propio, el más “verdadero” y, por lo tanto, el más desconocido. Por eso la escritura, cuando verdaderamente lo es, no puede sino estar del otro lado del poder. Las más distintas sociedades del mundo le han confiado a la escritura, especialmente a la poesía, esa tarea: producir ese otro lado del poder que es el texto. Ahí cuestionamos nuestras certezas, dudamos de nuestras convicciones, ponemos a prueba nuestros puntos de fuerza. Ahí vacilamos, que es otra manera de decir que vivimos. Ahí caemos rendidos. La escritura, especialmente la poesía, no puede, por lo mismo, estar del lado de la mismidad, del unívoco, del estado. La poesía, cuando es, es un puro reclamo. La poesía conoce, y esto a profundidad, la palabra que según Emily Dickinson es la más salvaje de todas: No.
Hace no mucho otra escritora mexicana, Carmen Boullosa, argumentaba que Rosario Castellanos supo albergar dentro de sí a ese otro que se anuncia en el poema Revelación a través de la voz indígena que tan bien exploró, cuestionó y retrató en Balún Canán, la novela que publicó en 1957, y que junto a Ciudad Real y Oficio de Tinieblas formaron lo que se ha dado en llamar su triología indigenista. De acuerdo con Boullosa, es esa voz de la nana-india la que le da con frecuencia el tono de prédica a mucha de la narrativa y no poca de la poesía de Castellanos. No es del todo descabellado pensar que Rosario Castellanos albergó dentro de sí esa otra voz de su revelación más primera y más íntima porque, desde temprana edad, fue también muy consciente de la frágil posición a la que la conminaba su cuerpo sexuado e histórico. Protegida por las jerarquías de clase y de raza en un Chiapas donde el indígena sigue luchando aún hoy en día por obtener un trato digno, pero condenada por su especificidad de género en el México de mediados de siglo XX, Rosario Castellanos dedicó mucha de su energía creativa a explicar y explicarse la compleja realidad de las mujeres de ese entorno que era también ella misma.
Es de suyo interesante que en 1950, el año en que otro gran poeta mexicano publicó un libro que ha probado tener una larga vida, me refiero al Laberinto de la Soledad de Octavio Paz, Rosario Castellanos publicara también la tesis con la que la Universidad Nacional le otorgó su grado en filosofía cuyo título fue: Sobre Cultura Femenina. Y digo que es de suyo interesante porque el libro de Octavio Paz le dedica un número considerable de páginas a definir a la mujer mexicana en términos de pasividad y traición, asociando su condición a aquella adjudicada a la figura histórica de La Malinche, mientras que Castellanos, compartiendo un mismo contexto histórico, apuntaba con rigurosa retórica académica hacia un entendimiento más detallado y complejo de la condición femenina. Que el tema permeaba el aire o inflingía escozores varios a los mexicanos que, a mediados del siglo pasado, experimentaron los rápidos cambios que hicieron una metropolis de la ciudad de México y una pesadilla económica de un autodenominado milagro, resulta evidente en el interés suscitado en dos mentes tan brillantes y tan disímbolas. Que el tema produjo, y sigue produciendo, interpretaciones tan contrastantes, si no es que opuestas, es apenas empezar a reconocer la necesidad de llevar a cabo lecturas paralelas de ambos textos.
Mientras eso sucede, y en medio de la alegría que supone volver a encontrar, más por azar que por plan preconcebido, ese volumen prodigioso que responde al nombre de Poesía no eres tú, van aquí algunas rosarios. Está, por supuesto, la de El despojo: Me arrebataron la razón del mundo/ y me dijeron: gasta tus años/ componiendo este rompecabezas sin sentido. Y está también la Rosario capaz de reírse de sí misma (como en Narciso 70, el poema en que acepta, no sin ironía, que abre los diarios para ver si encuentra su nombre en ellos). Y la Rosario utópica que imaginaba como ciertamente posibles otras maneras de ser (como en su famosa Meditación en el Umbral). Y la Rosario, importante hoy, que sigue declarando a los cuatro vientos que esa conjunción con el otro de su primera revelación es posible: Yo no voy a morir de enfermedad ni de vejez, de angustia o de cansancio./ Voy a morir de amor, voy a entregarme al más hondo regazo./ Yo no tendré vergüenza de estas manos vacías/ ni de esta celda hermética que se llama Rosario./ En los labios del viento he de llamarme árbol de muchos pájaros.
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[en La Mano Oblicua, columna de los martes del periódico mexicano Milenio, sección de cultura]
Escribió Rosario Castellanos en su poema Revelación: Lo supe de repente: hay otro. /Y desde entonces duermo sólo a medias /y ya casi no como.// No es posible vivir /con este rostro /que es el mío verdadero /y que aún no conozco.
Tengo la sospecha de que este es el momento que inaugura una y otra vez todo proceso de escritura: el momento de reconocimiento atroz: un momento alterado y de alteración: asombro y terror confundidos: crítica y libertad. Un abismo. Identificatoria (en el sentido de producir el reclamo de la diferencia que es asignada por ese otro) más que identataria (el grito de la mismidad), la escritura, cuando verdaderamente lo es, encarna la otra cara de la cara. El otro cuerpo. La otra voz. Se trata de la voz nuestra, eso es seguro, pero de la nuestra como “aún no la conocemos”. Atormenta y, debido a eso, dormimos “solo a medias” o “no com[emos]”. Pero se trata, sin duda, del rostro más propio, el más “verdadero” y, por lo tanto, el más desconocido. Por eso la escritura, cuando verdaderamente lo es, no puede sino estar del otro lado del poder. Las más distintas sociedades del mundo le han confiado a la escritura, especialmente a la poesía, esa tarea: producir ese otro lado del poder que es el texto. Ahí cuestionamos nuestras certezas, dudamos de nuestras convicciones, ponemos a prueba nuestros puntos de fuerza. Ahí vacilamos, que es otra manera de decir que vivimos. Ahí caemos rendidos. La escritura, especialmente la poesía, no puede, por lo mismo, estar del lado de la mismidad, del unívoco, del estado. La poesía, cuando es, es un puro reclamo. La poesía conoce, y esto a profundidad, la palabra que según Emily Dickinson es la más salvaje de todas: No.
Hace no mucho otra escritora mexicana, Carmen Boullosa, argumentaba que Rosario Castellanos supo albergar dentro de sí a ese otro que se anuncia en el poema Revelación a través de la voz indígena que tan bien exploró, cuestionó y retrató en Balún Canán, la novela que publicó en 1957, y que junto a Ciudad Real y Oficio de Tinieblas formaron lo que se ha dado en llamar su triología indigenista. De acuerdo con Boullosa, es esa voz de la nana-india la que le da con frecuencia el tono de prédica a mucha de la narrativa y no poca de la poesía de Castellanos. No es del todo descabellado pensar que Rosario Castellanos albergó dentro de sí esa otra voz de su revelación más primera y más íntima porque, desde temprana edad, fue también muy consciente de la frágil posición a la que la conminaba su cuerpo sexuado e histórico. Protegida por las jerarquías de clase y de raza en un Chiapas donde el indígena sigue luchando aún hoy en día por obtener un trato digno, pero condenada por su especificidad de género en el México de mediados de siglo XX, Rosario Castellanos dedicó mucha de su energía creativa a explicar y explicarse la compleja realidad de las mujeres de ese entorno que era también ella misma.
Es de suyo interesante que en 1950, el año en que otro gran poeta mexicano publicó un libro que ha probado tener una larga vida, me refiero al Laberinto de la Soledad de Octavio Paz, Rosario Castellanos publicara también la tesis con la que la Universidad Nacional le otorgó su grado en filosofía cuyo título fue: Sobre Cultura Femenina. Y digo que es de suyo interesante porque el libro de Octavio Paz le dedica un número considerable de páginas a definir a la mujer mexicana en términos de pasividad y traición, asociando su condición a aquella adjudicada a la figura histórica de La Malinche, mientras que Castellanos, compartiendo un mismo contexto histórico, apuntaba con rigurosa retórica académica hacia un entendimiento más detallado y complejo de la condición femenina. Que el tema permeaba el aire o inflingía escozores varios a los mexicanos que, a mediados del siglo pasado, experimentaron los rápidos cambios que hicieron una metropolis de la ciudad de México y una pesadilla económica de un autodenominado milagro, resulta evidente en el interés suscitado en dos mentes tan brillantes y tan disímbolas. Que el tema produjo, y sigue produciendo, interpretaciones tan contrastantes, si no es que opuestas, es apenas empezar a reconocer la necesidad de llevar a cabo lecturas paralelas de ambos textos.
Mientras eso sucede, y en medio de la alegría que supone volver a encontrar, más por azar que por plan preconcebido, ese volumen prodigioso que responde al nombre de Poesía no eres tú, van aquí algunas rosarios. Está, por supuesto, la de El despojo: Me arrebataron la razón del mundo/ y me dijeron: gasta tus años/ componiendo este rompecabezas sin sentido. Y está también la Rosario capaz de reírse de sí misma (como en Narciso 70, el poema en que acepta, no sin ironía, que abre los diarios para ver si encuentra su nombre en ellos). Y la Rosario utópica que imaginaba como ciertamente posibles otras maneras de ser (como en su famosa Meditación en el Umbral). Y la Rosario, importante hoy, que sigue declarando a los cuatro vientos que esa conjunción con el otro de su primera revelación es posible: Yo no voy a morir de enfermedad ni de vejez, de angustia o de cansancio./ Voy a morir de amor, voy a entregarme al más hondo regazo./ Yo no tendré vergüenza de estas manos vacías/ ni de esta celda hermética que se llama Rosario./ En los labios del viento he de llamarme árbol de muchos pájaros.
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LAS AFUERAS/ Edición de madrugada
LA MANO ROBADA
Una mano humana que se encontraba bajo resguardo del Hospital Municipal en espera de ser incinerada, debido a que no se le pudo reimplantar a su dueño, fue robada y luego abandonada en un parque de esta capital. Por esos hechos, la Procuraduría General de Justicia inició el Acta Ministerial de Investigación, con el apoyo de la Secretaría de Salud, para dar con el responsable de robar el miembro, informó el titular de la dependencia.
El secretario de Salud de la Localidad, al lamentar esta situación, dijo que la mano amputada se encontraba resguardada en la Cámara Fría o de Refrigeración, en espera de ser incinerada este lunes por la empresa encargada de recoger los Residuos Peligrosos Biológicos Infecciosos (RPBI). Al señalar que los candados de la cámara frigorífica fueron violados, El Funcionario explicó que debido a las condiciones en que fue llevada la extremidad no se pudo injertar nuevamente a la persona que le correspondía. El titular de la Secretaría de Salud señaló que el robo fue realizado por alguna persona con el único fin de dañar y exponer a las instituciones, y agregó que ya se están realizando las indagatorias correspondientes para proceder contra el presunto responsable.
[leído por La Detective mientras bebe, de nueva cuenta, café soluble y piensa en cosas varias]
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LA MANO ROBADA
Una mano humana que se encontraba bajo resguardo del Hospital Municipal en espera de ser incinerada, debido a que no se le pudo reimplantar a su dueño, fue robada y luego abandonada en un parque de esta capital. Por esos hechos, la Procuraduría General de Justicia inició el Acta Ministerial de Investigación, con el apoyo de la Secretaría de Salud, para dar con el responsable de robar el miembro, informó el titular de la dependencia.
El secretario de Salud de la Localidad, al lamentar esta situación, dijo que la mano amputada se encontraba resguardada en la Cámara Fría o de Refrigeración, en espera de ser incinerada este lunes por la empresa encargada de recoger los Residuos Peligrosos Biológicos Infecciosos (RPBI). Al señalar que los candados de la cámara frigorífica fueron violados, El Funcionario explicó que debido a las condiciones en que fue llevada la extremidad no se pudo injertar nuevamente a la persona que le correspondía. El titular de la Secretaría de Salud señaló que el robo fue realizado por alguna persona con el único fin de dañar y exponer a las instituciones, y agregó que ya se están realizando las indagatorias correspondientes para proceder contra el presunto responsable.
[leído por La Detective mientras bebe, de nueva cuenta, café soluble y piensa en cosas varias]
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Monday, May 19, 2008
LA INQUIETANTE (E INTERNACIONAL) SEMANA DE LAS MUJERES DESNUDAS
Hay de luces a luces y de sistemas solares a sistemas solares: DESNUDA DOS: UN LUNAR BAJO LA ÓRBITA DEL SENO.
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Hay de luces a luces y de sistemas solares a sistemas solares: DESNUDA DOS: UN LUNAR BAJO LA ÓRBITA DEL SENO.
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EL EJERCICIO DE LA O
[para todos los talleristas que alguna vez han llevado a cabo el ejercicio que los obliga a utilizar la disyunción "o" al menos tres veces en cada oración]
So, you want the beginning.
In the beginning, they didn't say "Once upon a time," they said something else. In the beginning they said, "Once upon a time, there was – or there wasn't." Do you know why they said that? When I first read this expression in a book about ancient Arabic literature, it took me by surprise. Because, in the beginning, they didn't lie. They didn't know anything, but they didn't lie. They left things vague, preferring to use that or which makes things that were as though they weren't, and things that weren't as though they were. That way the story is put on the same footing as life, because a story is a life that didn't happen, and a life is a story that didn't get told.
Elías Khoury, Gate of the Sun, 2.
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[para todos los talleristas que alguna vez han llevado a cabo el ejercicio que los obliga a utilizar la disyunción "o" al menos tres veces en cada oración]
So, you want the beginning.
In the beginning, they didn't say "Once upon a time," they said something else. In the beginning they said, "Once upon a time, there was – or there wasn't." Do you know why they said that? When I first read this expression in a book about ancient Arabic literature, it took me by surprise. Because, in the beginning, they didn't lie. They didn't know anything, but they didn't lie. They left things vague, preferring to use that or which makes things that were as though they weren't, and things that weren't as though they were. That way the story is put on the same footing as life, because a story is a life that didn't happen, and a life is a story that didn't get told.
Elías Khoury, Gate of the Sun, 2.
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Saturday, May 17, 2008
LAS AFUERAS/Edición matutina
LA SECTA APOCALÍPTICA
Los miembros de la secta religiosa que desde hace medio año esperaban el fin de mundo en una cueva en la región de Penza pusieron hoy término a su encierro subterráneo y salieron a la superficie. El final fue sorpresivo ya que los nueve sectarios, siete mujeres y dos hombres, habían anunciado que saldrían de la cueva a mediados de junio, para la festividad de la T.
Según el Jefe de la Administración del Distrito de Bekosvk, la advertencia de que existía el peligro de envenenamiento por la presencia en el refugio de los cadáveres de dos sectarias, fallecidas hace varias semanas, fue determinante para que se produjera la salida de la cueva.
"Se encuentran bien", dijo el Jefe de la Administración, al referirse al estado de salud de los fanáticos tras su prolongado encierro bajo tierra.
El vicegobernador de la región de Penza anunció, por su parte, que los equipos de rescate exhumaron esta madrugada los restos de las dos mujeres, que fueron trasladados a un depósito de cadáveres de un hospital local, donde serán practicadas las autopsias. Los miembros de la secta apocalíptica aseguran que una de las mujeres falleció a causa de ayuno severo y la otra, de enfermedad, según fuentes de la Fiscalía.
El encierro comenzó en noviembre del año pasado, cuando 35 miembros de la Secta Apocalíptica entraron en la cueva, acondicionada previamente, para esperar la llegada del fin del mundo. Los sectarios había hecho acopio de víveres y combustible para vivir meses o incluso años, y contaban con un pozo para cubrir sus necesidades de agua. Para llevar la cuenta del tiempo, los miembros de la secta utilizaban relojes y un calendario, y también podían ver la luz del día a través de los tubos que habían instalado para ventilar la cueva. Nada más comenzar su encierro, amenazaron con quemarse a lo bonzo si las autoridades intentaban sacarlos por la fuerza de la cueva.
A finales de marzo y principios de abril, 24 sectarios, entre ellos cuatro niños, salieron a la superficie tras sendos derrumbamientos de tierra. Los fanáticos, en su mayoría mujeres habían anunciado su intención de abandonar su encierro el 27 de abril pero luego desistieron de su propósito y anunciaron que saldrían a mediados de junio.
[leído y subrayado por La Detective mientras toma café soluble y apenas si logra vislumbrar la luz que atraviesa los domos]
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LA SECTA APOCALÍPTICA
Los miembros de la secta religiosa que desde hace medio año esperaban el fin de mundo en una cueva en la región de Penza pusieron hoy término a su encierro subterráneo y salieron a la superficie. El final fue sorpresivo ya que los nueve sectarios, siete mujeres y dos hombres, habían anunciado que saldrían de la cueva a mediados de junio, para la festividad de la T.
Según el Jefe de la Administración del Distrito de Bekosvk, la advertencia de que existía el peligro de envenenamiento por la presencia en el refugio de los cadáveres de dos sectarias, fallecidas hace varias semanas, fue determinante para que se produjera la salida de la cueva.
"Se encuentran bien", dijo el Jefe de la Administración, al referirse al estado de salud de los fanáticos tras su prolongado encierro bajo tierra.
El vicegobernador de la región de Penza anunció, por su parte, que los equipos de rescate exhumaron esta madrugada los restos de las dos mujeres, que fueron trasladados a un depósito de cadáveres de un hospital local, donde serán practicadas las autopsias. Los miembros de la secta apocalíptica aseguran que una de las mujeres falleció a causa de ayuno severo y la otra, de enfermedad, según fuentes de la Fiscalía.
El encierro comenzó en noviembre del año pasado, cuando 35 miembros de la Secta Apocalíptica entraron en la cueva, acondicionada previamente, para esperar la llegada del fin del mundo. Los sectarios había hecho acopio de víveres y combustible para vivir meses o incluso años, y contaban con un pozo para cubrir sus necesidades de agua. Para llevar la cuenta del tiempo, los miembros de la secta utilizaban relojes y un calendario, y también podían ver la luz del día a través de los tubos que habían instalado para ventilar la cueva. Nada más comenzar su encierro, amenazaron con quemarse a lo bonzo si las autoridades intentaban sacarlos por la fuerza de la cueva.
A finales de marzo y principios de abril, 24 sectarios, entre ellos cuatro niños, salieron a la superficie tras sendos derrumbamientos de tierra. Los fanáticos, en su mayoría mujeres habían anunciado su intención de abandonar su encierro el 27 de abril pero luego desistieron de su propósito y anunciaron que saldrían a mediados de junio.
[leído y subrayado por La Detective mientras toma café soluble y apenas si logra vislumbrar la luz que atraviesa los domos]
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Tuesday, May 13, 2008
ASIÁTICA
[en La Mano Oblicua, columna de los martes del periódico mexicano Milenio, sección de cultura]
Cuando desperté una mañana después de un sueño intranquilo, me encontré sobre mi cama convertida en un mero cuerpo humano. Estaba tumbada sobre mi espalda suave, llena de huesos puntiagudos y, al levantar un poco la cabeza, veía un vientre hundido, parduzco, coronado por un ombligo, sobre cuya protuberancia apenas podía mantenerse el cobertor, a punto ya de resbalar al suelo. Sentí frío y, entonces, abrí los ojos. No tuve más remedio que volver a saberlo: no se trataba de un sueño.
Había llegado a Asia unos meses antes, no he de mentir, más por casualidad que por deseo. Me habían traído acá las circunstancias, como se dice de las cosas que escapan a nuestro control y que sin embargo nos estructuran: un asunto que la Compañía de Seguros no había podido resolver desde el otro lado del océano. Así, un día desperté en una ciudad gris y monolítica y, como si fuera natural, salí a caminar. Me bastaron un par de cuadras para caer rendida: ante las dimensiones brutales de la urbe: ante un cansancio de días de aeropuertos: ante un aire contaminado que me oprimía el pecho: ante la sospecha de que presenciaba algo incomprensible. No era el pasado, como resultaría imaginable tratándose como se trataba del oriente, sino el futuro. Era esa máquina de demolición que, más allá del segundo anillo de la ciudad, parecía lista para arrasar con todo. Lo hacía.
Al inicio pensé que se debía puramente a mi desconcierto de extranjera pero pronto la sospecha creció hasta convertirse en absurda certeza: caminaba, de eso me convencí pronto, por espacios diseñados para seres que ya no conocería. Y el terror, supongo, el terror y la desazón me volvieron súbitamente consciente de cuán pequeños eran mis pasos, de la indefensión de mis dientes. Mis manos: la intemperie de mis manos. Sus uñas. Tuve frío entonces, y después calor. Por un momento cerré los ojos y los vi: sus cuerpos tenían piernas y brazos, como el mío pero, protegidos por pantallas de todo tipo y conectados a máquinas diversas (desde los anteojos hasta el teléfono celular, pasando por la antena de orientación que les permitirá encontrar lugares sin tener que interactuar con otro), se deslizaban entre bicicletas y escupitajos con energías inéditas –mitad implante genético, mitad pastilla de color extinto. Eso lo había leído en los libros de viajes que había revisado antes de emprender el periplo a oriente. Luego abrí los ojos y los seguí viendo. Sus periódicos abundaban en noticias sobre las nuevas adicciones, entre las cuales reinaba la internetmanía, o las cifras que indicaban el crecimiento de esto o de lo otro. Todo crecía sin cesar en esas ciudades de dimensiones post-humanas; todo, ciertamente, menos el aire que escaseaba. Por eso disfrutaba tanto las tardes de viento, que eran pocas. Entonces buscaba el cobijo de los árboles reales y, sentada bajo sus frondas, me dedicaba a oír la melodía que producían sus hojas trémulas. Tocaba las arrugas de sus troncos, para convencerme. Masticaba las orillas de sus hojas, para saber. E, inmóvil, como monumento que espía impávido desde el futuro, presenciaba el dolorido canto de los viejos. Nunca supe a ciencia cierta cuál era el tema de sus melodías pero estuve segura desde un inicio que no podía tratarse sino el paso del tiempo.
Las mañanas eran otra cosa. Solía pasarlas en oficinas bulliciosas donde, yendo de oficial en oficial, terminaba por no arreglar nada. Desde la Compañía Central me pedían respuestas y, ante las mías, que eran además de negativas, desalentadoras, me exigían insistencia. Yo insistía. A eso dedicaba mis mañanas: a insistir sobre un asunto que sólo tenía relevancia para un puñado de personas del otro lado del mundo. Insistía, además, en una lengua que nadie entendía y que, traducida una y otra vez de interlocutor en interlocutor, terminaba comunicando mensajes que, con todo seguridad, yo misma no estaba preparada para comprender. Insistía con un sentido de responsabilidad que bien rozaba la demencia. La respuesta no variaba: con ademanes brutales, después de un escupitajo o dos, los oficiales terminaban dándome a entender que regresara al siguiente día. Que después. Una especie de paradójica felicidad me embargaba entonces: estaba derrotada, ciertamente, pero la derrota me obligaba a salir de esas oficinas enormes donde mi cuerpo, menudo y uniformado, era presa de náuseas y escalofríos. Nunca fueron mis pasos más pequeños que al partir de esos recintos. Nunca tan insignificante mi estatura. La lentitud del proceso, en efecto, me exasperaba. Así llegué a comprender la impaciencia de los que están a punto de nacer. O de morir.
Luego, con el cansancio que produce la frustración continua, me dirigía a las máquinas dispensadoras donde, a cambio de un par de monedas, obtenía mis víveres: un par de frutas, un contenedor con arroz, agua. Masticaba despacio, saboreando cuanto podía, que era poco. Mis manos: la intemperie de mis manos. Los huesos. La espalda, encorvada. Las muñecas cada vez más exiguas. Mientras tanto veía la vida del otro lado de los ventanales: los signos incomprensibles de sus anuncios, la amplitud avasalladora de las avenidas, la lentitud del tráfico y las torres elevadísimas por cuyas puertas colosales parecía estar a punto de cruzar ese otro cuerpo que, estaba segura, yo ya no reconocería. El momento de la digestión. La máquina que lo demolía todo. Y el alivio. El inicio del alivio. Esto.
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[en La Mano Oblicua, columna de los martes del periódico mexicano Milenio, sección de cultura]
Cuando desperté una mañana después de un sueño intranquilo, me encontré sobre mi cama convertida en un mero cuerpo humano. Estaba tumbada sobre mi espalda suave, llena de huesos puntiagudos y, al levantar un poco la cabeza, veía un vientre hundido, parduzco, coronado por un ombligo, sobre cuya protuberancia apenas podía mantenerse el cobertor, a punto ya de resbalar al suelo. Sentí frío y, entonces, abrí los ojos. No tuve más remedio que volver a saberlo: no se trataba de un sueño.
Había llegado a Asia unos meses antes, no he de mentir, más por casualidad que por deseo. Me habían traído acá las circunstancias, como se dice de las cosas que escapan a nuestro control y que sin embargo nos estructuran: un asunto que la Compañía de Seguros no había podido resolver desde el otro lado del océano. Así, un día desperté en una ciudad gris y monolítica y, como si fuera natural, salí a caminar. Me bastaron un par de cuadras para caer rendida: ante las dimensiones brutales de la urbe: ante un cansancio de días de aeropuertos: ante un aire contaminado que me oprimía el pecho: ante la sospecha de que presenciaba algo incomprensible. No era el pasado, como resultaría imaginable tratándose como se trataba del oriente, sino el futuro. Era esa máquina de demolición que, más allá del segundo anillo de la ciudad, parecía lista para arrasar con todo. Lo hacía.
Al inicio pensé que se debía puramente a mi desconcierto de extranjera pero pronto la sospecha creció hasta convertirse en absurda certeza: caminaba, de eso me convencí pronto, por espacios diseñados para seres que ya no conocería. Y el terror, supongo, el terror y la desazón me volvieron súbitamente consciente de cuán pequeños eran mis pasos, de la indefensión de mis dientes. Mis manos: la intemperie de mis manos. Sus uñas. Tuve frío entonces, y después calor. Por un momento cerré los ojos y los vi: sus cuerpos tenían piernas y brazos, como el mío pero, protegidos por pantallas de todo tipo y conectados a máquinas diversas (desde los anteojos hasta el teléfono celular, pasando por la antena de orientación que les permitirá encontrar lugares sin tener que interactuar con otro), se deslizaban entre bicicletas y escupitajos con energías inéditas –mitad implante genético, mitad pastilla de color extinto. Eso lo había leído en los libros de viajes que había revisado antes de emprender el periplo a oriente. Luego abrí los ojos y los seguí viendo. Sus periódicos abundaban en noticias sobre las nuevas adicciones, entre las cuales reinaba la internetmanía, o las cifras que indicaban el crecimiento de esto o de lo otro. Todo crecía sin cesar en esas ciudades de dimensiones post-humanas; todo, ciertamente, menos el aire que escaseaba. Por eso disfrutaba tanto las tardes de viento, que eran pocas. Entonces buscaba el cobijo de los árboles reales y, sentada bajo sus frondas, me dedicaba a oír la melodía que producían sus hojas trémulas. Tocaba las arrugas de sus troncos, para convencerme. Masticaba las orillas de sus hojas, para saber. E, inmóvil, como monumento que espía impávido desde el futuro, presenciaba el dolorido canto de los viejos. Nunca supe a ciencia cierta cuál era el tema de sus melodías pero estuve segura desde un inicio que no podía tratarse sino el paso del tiempo.
Las mañanas eran otra cosa. Solía pasarlas en oficinas bulliciosas donde, yendo de oficial en oficial, terminaba por no arreglar nada. Desde la Compañía Central me pedían respuestas y, ante las mías, que eran además de negativas, desalentadoras, me exigían insistencia. Yo insistía. A eso dedicaba mis mañanas: a insistir sobre un asunto que sólo tenía relevancia para un puñado de personas del otro lado del mundo. Insistía, además, en una lengua que nadie entendía y que, traducida una y otra vez de interlocutor en interlocutor, terminaba comunicando mensajes que, con todo seguridad, yo misma no estaba preparada para comprender. Insistía con un sentido de responsabilidad que bien rozaba la demencia. La respuesta no variaba: con ademanes brutales, después de un escupitajo o dos, los oficiales terminaban dándome a entender que regresara al siguiente día. Que después. Una especie de paradójica felicidad me embargaba entonces: estaba derrotada, ciertamente, pero la derrota me obligaba a salir de esas oficinas enormes donde mi cuerpo, menudo y uniformado, era presa de náuseas y escalofríos. Nunca fueron mis pasos más pequeños que al partir de esos recintos. Nunca tan insignificante mi estatura. La lentitud del proceso, en efecto, me exasperaba. Así llegué a comprender la impaciencia de los que están a punto de nacer. O de morir.
Luego, con el cansancio que produce la frustración continua, me dirigía a las máquinas dispensadoras donde, a cambio de un par de monedas, obtenía mis víveres: un par de frutas, un contenedor con arroz, agua. Masticaba despacio, saboreando cuanto podía, que era poco. Mis manos: la intemperie de mis manos. Los huesos. La espalda, encorvada. Las muñecas cada vez más exiguas. Mientras tanto veía la vida del otro lado de los ventanales: los signos incomprensibles de sus anuncios, la amplitud avasalladora de las avenidas, la lentitud del tráfico y las torres elevadísimas por cuyas puertas colosales parecía estar a punto de cruzar ese otro cuerpo que, estaba segura, yo ya no reconocería. El momento de la digestión. La máquina que lo demolía todo. Y el alivio. El inicio del alivio. Esto.
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Friday, May 09, 2008
MEETING ALVAREZ BRAVO ON THE MIAMI BEACH BRIDGE
Alvarez Bravo supo capturar el momento muy bien. Hay un hombre (o una mujer) que se desliza de derecha a izquierda de la fotografía y una mujer (o un hombre) que avanza justo en sentido contrario. Arriba: las sábanas que se pavonean bajo el embate del viento y del sol. Más arriba: las nubes, cargadas de anticipación o lluvia. El que mira la imagen sabe que el hombre (o la mujer) y la mujer (o el hombre) continuarán con su trayectoria y que, en la fotografía que Álvarez Bravo no tomó, hubo un efímero momento de reconocimiento minutos (o siglos) más tarde. El que mira (o recuerda) la imagen sabe que el cruce ocurrirá (que está ocurriendo) en la cresta de un puente construido en 1913, bajo una lluvia que, de tan tibia, parece té. Abajo: las aguas límpidas del Caribe. Más abajo: la tierra, que cede.
--crg
Alvarez Bravo supo capturar el momento muy bien. Hay un hombre (o una mujer) que se desliza de derecha a izquierda de la fotografía y una mujer (o un hombre) que avanza justo en sentido contrario. Arriba: las sábanas que se pavonean bajo el embate del viento y del sol. Más arriba: las nubes, cargadas de anticipación o lluvia. El que mira la imagen sabe que el hombre (o la mujer) y la mujer (o el hombre) continuarán con su trayectoria y que, en la fotografía que Álvarez Bravo no tomó, hubo un efímero momento de reconocimiento minutos (o siglos) más tarde. El que mira (o recuerda) la imagen sabe que el cruce ocurrirá (que está ocurriendo) en la cresta de un puente construido en 1913, bajo una lluvia que, de tan tibia, parece té. Abajo: las aguas límpidas del Caribe. Más abajo: la tierra, que cede.
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Thursday, May 08, 2008
Tuesday, May 06, 2008
SEXTO SUEÑO
[en La Mano Oblicua, columna de los martes del periódico mexicano Milenio, sección de cultura]
El libro, que responde al nombre de Sexto sueño, anduvo un par de meses, precisamente, en el sexto sueño. Me lo había llevado conmigo de viaje hacia la costa oeste pero, entre una cosa y otra, seguramente por la fascinación que sobre mí siempre ha ejercido el Pacífico, lo perdí. Se lo comuniqué a su autora; le dije a Marta Aponte Alsina con mucho de pena y otro tanto de remordimiento que había querido escribir algunos comentarios sobre su más reciente novela pero que, por desgracia, el libro se me había ido al sexto sueño. El comentario, a ella, la hizo reír y también la hizo considerar la posibilidad de escribir un cuento (al menos eso me dijo). Yo, por mi parte, anduve pensando con mesurada testarudez en el libro, tanteando la posibilidad de escribir algo sobre ese libro alucinante sólo con base en los recuerdos que se negaban a irse, en el eco refinado de algunas de sus frases, en la estructura explícitamente piramidal del relato, pero no logré decidirme. Lo último que le dije a Marta Aponte Alsina acerca de su libro fue, sin embargo, que estaba segura de que regresaría. Algo que no se va de la cabeza, imaginé, no tiene de otra más que regresar. De una o de otra manera, en el momento menos pensado, sé que encontrará su camino de regreso. Eso dije. Pasaron los días (porque lo propio de los días es pasar) y hoy, mientras colocaba libros y otras pocas pertenencias en un par de cajas de cartón con dirección a la próxima casa, lo encontré. Porque, como bien dice Aponte Alsina del sexto sueño, “No se deja buscar, pero se encuentra”.
En efecto, el libro salió, azul y exacto, de un sobre amarillo, tamaño carta. Salió como un recién nacido de ese lugar del vientre que es el extravío. Recordaba, por supuesto, que una de las definiciones del sexto sueño era aquel estado nebuloso, propicio para la escritura, que se encontraba después del quinto sueño (un lugar ya de por sí bastante alejado de la realidad). En la novela, esto también lo recordaba con suma claridad, una abuela acusaba a su nieta, la protagonista de nombre Violeta Cruz, de encontrarse en el quinto sueño, sólo para que la nieta retobara con flagrante complicidad y estirándose con placer que no estaba en el quinto, sino en el sexto sueño. Allá. Lo que no recordaba, no había manera, era que Marta Aponte había escrito hacia final de la novela que “Si el sexto sueño fuera un lugar sería tu casa, lector cómplice”. Heme aquí, pues.
“Soy cortadora de hombres y compositora de boleros”, dice Violeta Cruz de sí misma en las primeras páginas de esta novela. Tan directa como mordaz, tan sucinta como punzante, la anatomista de profesión avanza en su tarea con la exactitud del escalpelo: “traer del más allá uno de los seiscientos cadáveres que disec[ó] en [su] carrera”. Elegido a través de un método tan aleatorio (una serie de números aparecidos en una sesión espiritista) como del que se había servido el ahora cadáver para seleccionar a su víctima (un niño al que asesinaría con saña en el así llamado “crimen del siglo” a inicios del XX y en Chicago), Nathan Leopold se convierte en la ausencia que convocará a las palabras para producir, paso a paso, su vida. Resucitar es un verbo atroz. Se trata, en efecto, del sonado caso de aquel hombre que, junto con Richard Loeb, por aquel entonces ambos estudiantes de la Universidad de Chicago, recibiría una condena de por vida por asesinato, más noventa y nueve años por secuestro. Se trata del mismo hombre que, después de sobrellevar 33 años de prisión, decidió trasladarse, de entre todos los lugares de los Estados Unidos, a Puerto Rico, la isla donde según confirman documentos varios se casó con una florista y cultivó la filantropía hasta el día de su muerte en 1971. El tema, que ya ha fascinado a autores de tan variada estirpe como Alfred Hitchcock o Richard Wright, se transforma en un verdadero tour de force en la prosa lúcida y feroz de la puertorriqueña Marta Alponte Alsina. En la caja china de su propio abismo, con un sentido del humor que son en realidad muchos, “[e]n el sexto sueño los muertos se pasean por el cuerpo de los vivos. O, para expresarlo en palabras demasiado claras: se siente vivir a la muerte”. Esto, francamente, es cierto.
En el epígrafe de María Zambrano que precede a la novela, hay una referencia explícita al momento que persigue la novela: se trata del instante último, del segundo imperecedero en el que se deshace “ese nudo que une aún a las almas de los recién muertos con el aire de la vida”. Y, para contar eso, ¿se le atrapa o se le deja ir? “Una novela no se descuartiza como un cadáver”, asegura la novela de Marta Aponte Alsina. “Se construye como las pirámides, escribió Flaubert”, añade, segura de sí misma. Sólida. Pero esta novela piramidal que es en realidad un sueño que está más allá del quinto, está narrada (al menos en una de sus instancias) por alguien que corta (aunque cortar no de derecho a contar). De capítulos breves y saltos en el tiempo, con súbitos cambios entre la primera y la segunda y la tercera persona, metanarrativa a ratos, autoimprecadora en otros, la novela es un cadáver descuartizado sobre una mesa que parece una pirámide. Cómplice lector: “Los muertos son amantes caprichosos”, eso también es cierto. En algún momento de la novela, justo después de que la doctora Cruz ha conocido a un hombre muy hermoso, la novela declara que “los hombres son vasos frágiles”. La misma novela ha dicho antes lo mismo, en voz del Resucitado, acerca de las mujeres. La idea del recipiente. Y ese vaso que, de acuerdo con Rilke, se rompe, como todo, dentro de las venas. Un estrépito. Así apareció Sexto sueño desde las entrañas de un sobre amarillo, tamaño carta, todavía con el aroma del Pacífico. Así se queda.
Maria Aponte Alsina, Sexto Sueño (Madrid: Veintisiete Letras, 2007)
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[en La Mano Oblicua, columna de los martes del periódico mexicano Milenio, sección de cultura]
El libro, que responde al nombre de Sexto sueño, anduvo un par de meses, precisamente, en el sexto sueño. Me lo había llevado conmigo de viaje hacia la costa oeste pero, entre una cosa y otra, seguramente por la fascinación que sobre mí siempre ha ejercido el Pacífico, lo perdí. Se lo comuniqué a su autora; le dije a Marta Aponte Alsina con mucho de pena y otro tanto de remordimiento que había querido escribir algunos comentarios sobre su más reciente novela pero que, por desgracia, el libro se me había ido al sexto sueño. El comentario, a ella, la hizo reír y también la hizo considerar la posibilidad de escribir un cuento (al menos eso me dijo). Yo, por mi parte, anduve pensando con mesurada testarudez en el libro, tanteando la posibilidad de escribir algo sobre ese libro alucinante sólo con base en los recuerdos que se negaban a irse, en el eco refinado de algunas de sus frases, en la estructura explícitamente piramidal del relato, pero no logré decidirme. Lo último que le dije a Marta Aponte Alsina acerca de su libro fue, sin embargo, que estaba segura de que regresaría. Algo que no se va de la cabeza, imaginé, no tiene de otra más que regresar. De una o de otra manera, en el momento menos pensado, sé que encontrará su camino de regreso. Eso dije. Pasaron los días (porque lo propio de los días es pasar) y hoy, mientras colocaba libros y otras pocas pertenencias en un par de cajas de cartón con dirección a la próxima casa, lo encontré. Porque, como bien dice Aponte Alsina del sexto sueño, “No se deja buscar, pero se encuentra”.
En efecto, el libro salió, azul y exacto, de un sobre amarillo, tamaño carta. Salió como un recién nacido de ese lugar del vientre que es el extravío. Recordaba, por supuesto, que una de las definiciones del sexto sueño era aquel estado nebuloso, propicio para la escritura, que se encontraba después del quinto sueño (un lugar ya de por sí bastante alejado de la realidad). En la novela, esto también lo recordaba con suma claridad, una abuela acusaba a su nieta, la protagonista de nombre Violeta Cruz, de encontrarse en el quinto sueño, sólo para que la nieta retobara con flagrante complicidad y estirándose con placer que no estaba en el quinto, sino en el sexto sueño. Allá. Lo que no recordaba, no había manera, era que Marta Aponte había escrito hacia final de la novela que “Si el sexto sueño fuera un lugar sería tu casa, lector cómplice”. Heme aquí, pues.
“Soy cortadora de hombres y compositora de boleros”, dice Violeta Cruz de sí misma en las primeras páginas de esta novela. Tan directa como mordaz, tan sucinta como punzante, la anatomista de profesión avanza en su tarea con la exactitud del escalpelo: “traer del más allá uno de los seiscientos cadáveres que disec[ó] en [su] carrera”. Elegido a través de un método tan aleatorio (una serie de números aparecidos en una sesión espiritista) como del que se había servido el ahora cadáver para seleccionar a su víctima (un niño al que asesinaría con saña en el así llamado “crimen del siglo” a inicios del XX y en Chicago), Nathan Leopold se convierte en la ausencia que convocará a las palabras para producir, paso a paso, su vida. Resucitar es un verbo atroz. Se trata, en efecto, del sonado caso de aquel hombre que, junto con Richard Loeb, por aquel entonces ambos estudiantes de la Universidad de Chicago, recibiría una condena de por vida por asesinato, más noventa y nueve años por secuestro. Se trata del mismo hombre que, después de sobrellevar 33 años de prisión, decidió trasladarse, de entre todos los lugares de los Estados Unidos, a Puerto Rico, la isla donde según confirman documentos varios se casó con una florista y cultivó la filantropía hasta el día de su muerte en 1971. El tema, que ya ha fascinado a autores de tan variada estirpe como Alfred Hitchcock o Richard Wright, se transforma en un verdadero tour de force en la prosa lúcida y feroz de la puertorriqueña Marta Alponte Alsina. En la caja china de su propio abismo, con un sentido del humor que son en realidad muchos, “[e]n el sexto sueño los muertos se pasean por el cuerpo de los vivos. O, para expresarlo en palabras demasiado claras: se siente vivir a la muerte”. Esto, francamente, es cierto.
En el epígrafe de María Zambrano que precede a la novela, hay una referencia explícita al momento que persigue la novela: se trata del instante último, del segundo imperecedero en el que se deshace “ese nudo que une aún a las almas de los recién muertos con el aire de la vida”. Y, para contar eso, ¿se le atrapa o se le deja ir? “Una novela no se descuartiza como un cadáver”, asegura la novela de Marta Aponte Alsina. “Se construye como las pirámides, escribió Flaubert”, añade, segura de sí misma. Sólida. Pero esta novela piramidal que es en realidad un sueño que está más allá del quinto, está narrada (al menos en una de sus instancias) por alguien que corta (aunque cortar no de derecho a contar). De capítulos breves y saltos en el tiempo, con súbitos cambios entre la primera y la segunda y la tercera persona, metanarrativa a ratos, autoimprecadora en otros, la novela es un cadáver descuartizado sobre una mesa que parece una pirámide. Cómplice lector: “Los muertos son amantes caprichosos”, eso también es cierto. En algún momento de la novela, justo después de que la doctora Cruz ha conocido a un hombre muy hermoso, la novela declara que “los hombres son vasos frágiles”. La misma novela ha dicho antes lo mismo, en voz del Resucitado, acerca de las mujeres. La idea del recipiente. Y ese vaso que, de acuerdo con Rilke, se rompe, como todo, dentro de las venas. Un estrépito. Así apareció Sexto sueño desde las entrañas de un sobre amarillo, tamaño carta, todavía con el aroma del Pacífico. Así se queda.
Maria Aponte Alsina, Sexto Sueño (Madrid: Veintisiete Letras, 2007)
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Monday, May 05, 2008
LA INQUIETANTE (E INTERNACIONAL) SEMANA DE LAS MUJERES DESNUDAS
En el inicio era la luz, pero nadie nos dijo que la luz era puro carmesí.
DESNUDA UNO: RESPLANDECIENTE RÁFAGA ROJA
!Comenzamos!
--crg
En el inicio era la luz, pero nadie nos dijo que la luz era puro carmesí.
DESNUDA UNO: RESPLANDECIENTE RÁFAGA ROJA
!Comenzamos!
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EDINBURG/UTPA
Era el lado contrario en el tablero del ajedrez
(el tablero del ajedrez no es el hiperreal)
en los bolsillos los dos tipos de monedas; en la boca
todos los lenguajes.
Éramos saliva, recordé
(ah, la boca)
la cruzadera esa: la posibilidad
dar un paso y ser
otra cosa
(la otra cosa no es el hiperreal).
Hacía calor, dije. Redundantes remolinos raudos
los objetos vueltos faldas, zapatos, dios.
Había árboles también. Había
ajadas hojas desobedientes.
El vaso que se rompe dentro de las venas
(Rilke dixit)
la canción de cuna
la ley marcial.
La palma de la mano entonces
la pizarra donde el mundo a veces
el hiperreal
(o la boca).
Desear, que es un verbo.
Borrar.
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Era el lado contrario en el tablero del ajedrez
(el tablero del ajedrez no es el hiperreal)
en los bolsillos los dos tipos de monedas; en la boca
todos los lenguajes.
Éramos saliva, recordé
(ah, la boca)
la cruzadera esa: la posibilidad
dar un paso y ser
otra cosa
(la otra cosa no es el hiperreal).
Hacía calor, dije. Redundantes remolinos raudos
los objetos vueltos faldas, zapatos, dios.
Había árboles también. Había
ajadas hojas desobedientes.
El vaso que se rompe dentro de las venas
(Rilke dixit)
la canción de cuna
la ley marcial.
La palma de la mano entonces
la pizarra donde el mundo a veces
el hiperreal
(o la boca).
Desear, que es un verbo.
Borrar.
--crg
Thursday, May 01, 2008
LIBROS DE BUENA LEY
No fue en su día, pero casi. Aprobada por el senado y la cámara de diputados, la nueva ley de libro en México hace que los libros, y sus posibles lectores, estemos todos de plácemes. Además: puesto que dice que "se busca la creación de nuevas librerías en los municipios que no cuentan con ninguna y que constituyen 94% del total", la nueva ley hace hace que todos aquellos que no vivimos en el sur de la ciudad de México alberguemos esperanzas (locas, pero al fin y al cabo esperanzas).
--crg
No fue en su día, pero casi. Aprobada por el senado y la cámara de diputados, la nueva ley de libro en México hace que los libros, y sus posibles lectores, estemos todos de plácemes. Además: puesto que dice que "se busca la creación de nuevas librerías en los municipios que no cuentan con ninguna y que constituyen 94% del total", la nueva ley hace hace que todos aquellos que no vivimos en el sur de la ciudad de México alberguemos esperanzas (locas, pero al fin y al cabo esperanzas).
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